Contratto il tempo, e sospeso. Due minuti all’arrivo della metro, e già preso dai jeans il mio libro osservo sottecchi il dondolio della gente. Formiche brulicanti, avanti e indietro, impazienti. Lo sanno, due minuti. E in questi due minuti che sono? chi sono? che faccio? Potrebbe disgraziatamente capitare di alzare gli occhi per cercare il cielo, ed inciampare in altri occhi, e riconoscere la breve distanza tra me e la persona che mi è accanto in banchina. Rovinosa vicinanza, come un sasso non visto per strada. Ed inciampa lo sguardo. Si ferma. Siamo così accanto e non parliamo. Sono così vicina e non l’avevo vista fino ad ora, né sentita, né guardata. Ha un rossetto tenue, come una fioca luce che balugina dal palmo di una lontana montagna. Rosaceo, allarma lievemente il colore delle sue labbra. E’ steso di fretta, non preciso, ma grazioso. Pelle chiara, quasi spettrale, e degli occhi nocciola. Un nocciola pieno, come un pastello saturo di colore. Un nocciola distratto, perso in una do-list che scorre, e percorre, e vaga e torna indietro tra le camere del cervello. Spesa, macchina, benzina, bollette, cena, Marco a scuola, venti minuti, due alla metro, fermata colosseo, il pane, la spesa, chiamare l’estetista, martedì dottore, venerdì dentista, domani sveglia presto, oggi, letto presto, è tardi, che ore sono? due minuti, ancora non passano, farò tardi, spesa, macchina, benzina, bollette, cena, Marco a scuola, due minuti, duemila anni, non passa, fa caldo, ho sete, chissà se poi piove, quanto manca, è tardi, ho sonno, sono stanca. Osservo le autostrade della mente intasarsi precipitevolmente, e creparsi, fratturarsi, emergere come lava da un vulcano e mostrarsi sulla fronte, nel solco di mille rughe già veterane in quel viso. Deve avere una trentina d’anni, è sposata, si cura le unghie, è ben vestita. Poi si alza e si allontana. Peccato, un’altra vita persa, un intreccio non legato. Un minuto alla metro. Il tempo non passa, s’è steso sui passi tiepidi che percorrono senza accorgersene due, tre o quattro metri di strada, avanti e indietro, indietro, avanti, un minuto. L’orologio suona, è un Casio. Suona a mezzogiorno, piccoli suoni acuti, come fosse una musica monotona che per uscire da quel polso s’è messa dei tacchi fini fini, e cammina sulle scale dell’aria quasi tintinnando. Bip, bip, mezzogiorno, un minuto, trentadue volte, avanti e indietro. Trentacinque persone concentrate in quattro metri e mezzo di banchina, autostrade di pensieri che si scontrano e rompono le fronti, rughe, sospiri, i tacchi del suono dell’orologio, e io col mio libro in mano. Non capisco ancora che cosa sono stata in questi due minuti della mia vita. A due a due in fondo fanno anche un’ora, e ora per ora passano i giorni, e gli anni. E il tempo sorride beffardo, disteso anche lui in quei quattro metri di banchina con una spiga di grano in bocca, tranquillo, mentre io in quel momento non sono, perché non parlo, non penso, non conosco, non apprendo, non faccio nulla. Aspetto. Treno in arrivo. E le autostrade si fermano, le giacche si scompongono strattonate dall’aria soffiata dall’impeto dei vagoni in frenata, gli occhi si accendono, le bocche dipinte da rossetti variegati si contraggono, si distendono, sorridono, si piegano, baciano, salutano. Il chiacchiericcio torna un po’ più vivido, più zampillante, e chiacchierano anche le ruote delle valigie che piano ma con note d’ansia, s’avvicinano alla fatidica linea gialla da non oltrepassare, ed io osservo, cerco vagoni con posti vuoti. Treno in arrivo, la massa entra, non parla, non si guarda, si siede, rimane in piedi, corre verso spazi vuoti, e oscilla in questi, fermata per fermata, minuto per minuto, ora per ora. E ora che entro in altri due minuti, nuovi, freschi, aitanti e promettenti, ora che torno a guardare il vuoto e a non pensare…ora, chi sono?