Traguardi: La prima casa

Mentre firmavo mi sono chiesta “come sarà da oggi in poi?”.

Traguardi.

Ti chiedono sempre di scrivere un nome per sugellare il “prima” e distinguerlo dal “dopo”.

Firmo la prima volta: Luz Stella Iaià.

Che nome buffo. Lì per lì mi viene l’istinto di ironizzare. Coinvolgere mio padre con una battuta. Dirgli “certo che potevate scegliere un nome più facile per le firme?”

Ma non era il momento.

Si è mosso qualcosa dentro me che mi ha chiesto di sostenere la situazione, di non mettermi a fare piroette nel cielo, di tenere saldi i piedi per terra.

Sono malinconica.

Metto la seconda firma, e di colpo mi vedo bambina. Il mio Ciccio bello in braccio, spaesata, varcare il primo passo della casa che mi ha accolto a due anni. Non l’ho scritto da nessuna parte il mio nome a quel tempo, ma di sicuro l’avranno detto. Mentre attraversavo timidamente quella soglia, l’avranno detto a me, o ai nonni, o a qualche parente in visita per l’occasione.

Luz Stella Iaià. Nemmeno lo sapevo allora il senso e il significato che poteva avere questo nome, ma da quel passo la mia vita è entrata in un vortice tiepido.

La scuola, i fratelli, i nonni, gli amici, mamma, papà.

Accanto a me sento ora mio padre, mi sento in colpa per ogni firma. Vorrei dirgli che non sto scappando, vorrei dirgli che lo so che l’amore non è mai mancato. Ma la situazione, le persone, la stanza e il caldo non mi permettono di farlo.

Vorrei chiedergli se quando ha scelto di diventare padre già sapeva che sarebbe arrivato questo giorno.

Vorrei sapere, forse anche per sentirmi meglio, se aveva messo in conto, insieme a tutti i risparmi che ha messo da parte, anche ciò che avrebbe comportato lasciarmi compiere quel passo per poter guardare la vita da un’altra finestra.

Forse anche lui vorrebbe ironizzare, anche lui vorrebbe saltellare sulle nuvole, forse anche lui molti anni fa ha vissuto quella situazione in cui qualcosa invece gli ha chiesto di tenere i piedi saldi per terra.

Allora mi chiedono di mettere una firma anche qui, qui e dietro il terzo foglio.

Non capisco perché alla fine di ogni plico mi ostino a restituire la penna al notaio.

Chissà quanti ne ha visti lui di padri e figli in una stanza seri e composti, con lo sguardo concentrato a sostenere la situazione, quello srotolarsi dei mille comma e di tutte quelle date.

Mi viene spontaneo annuire ogni volta che percepisco nel tono del notaio un’inflessione o una pausa, annuisco con la testa, con la schiena. Annuisco per fare in modo di non cadere dal filo sul quale mi sento di star camminando. Annuisco e nello stesso tempo dondolo, perché l’equilibrio è fondamentale in questi momenti.

Annuisco mentre cerco di rincorrere il mio pensiero che ansimante non fa altro che rifugiarsi nelle impolveratissime stanze della memoria.

In questi momenti ogni ricordo si ricopre di una patina impercettibile fatta di leggera carta di zucchero. In questi momenti ogni giorno passato sembra adatto ad una pubblicità. Ogni gesto accentua la sua forma, ogni parola rimbomba nel sapore che richiama.

Cosa viene dopo?

E sebbene sia pienamente consapevole che se glielo chiedessi, mio padre cercherebbe in ogni sua molecola delle parole per darmi una risposta, so benissimo che non posso far altro che tenere per me questa domanda.

 Potrebbe rispondere che dopo viene la vita, anche se la vita c’è stata fino ad ora. Che dopo vengono le responsabilità, gli impegni.

Potrebbe dirmi che da questo momento in poi sarò io a guidare la mia canoa. Che lui e mamma mi guarderanno dalla riva affrontare le ripide. Potrebbe rispondermi che non cambierà nulla, pur consapevole che non può essere così.

Immagino il momento in cui sarò io a dover dare delle risposte a qualcun altro. Immagino e penso di tutto.

Forse per qualche istante mi sono persa troppo in là, e mi riporta di nuovo nella stanza la richiesta di altre firme.

Tre ore di firme, non ti chiedi nemmeno più cosa stai davvero firmando, se stai facendo bene la firma, se sei composta mentre firmi.

Istintivamente cerco di trovare una posa ai miei occhi credibile, da adulta.

È incredibile fare memoria e realizzare che da figli si passa la maggior parte del tempo e delle energie a far credere ai nostri genitori di essere adulti.

Quando a cinque anni ho combattuto con tutta me stessa per sistemare da sola un cassetto sfilato dall’armadio della stanza, era per far vedere a mia madre quanto ero capace.

Come quando in età di liceo, e quindi nel periodo pulsante dell’adolescenza, ti fai lasciare dai tuoi dietro l’angolo per non far vedere al tuo gruppo di amici che ti fai portare ancora da mamma e papà. Anche quello è un modo per dire e dimostrare che sei grande, che ce la fai da solo.

È un istinto, credo. Se non su larga scala, è stato il mio istinto per gran parte della mia vita. Che io ne sia stata più o meno consapevole.

È lo stesso istinto per il quale anche a quasi trent’anni ogni volta che ti sembra di aver raggiunto un traguardo o di aver fatto un buon lavoro, corri verso di loro nello stesso modo scoordinato e scomposto con cui lo facevi a quattro anni con il tuo bellissimo disegno in mano.

E nel frattempo, una volta accertato di essere entrato nel loro campo visivo (che poi a quattro anni non lo sai ancora, ma ci sei sempre nel loro campo visivo), iniziavi a chiedere impaziente “mamma, papà, guardate che ho fatto”.

È lo stesso istinto che porta a brandire sotto gli occhi dei tuoi la parte migliore di te, e allo stesso tempo ti fa essere furibondo con loro quando tra i tredici e in venticinque anni non ti senti compreso da loro, e in fondo, temi che non siano in grado di cogliere tutto ciò che per te fa parte della sfera delle cose che ti fanno sentire grande.

Ed è per questo che oggi, tra una firma e l’altra cercavo la postura più adatta da tenere in presenza di mio padre.

Eppure, nonostante tutto continua a ritornare lo stupore ogni volta che in sede di stipula il notaio si rivolge a te chiamandoti Signora.

È incredibile, la bimba con Ciccio bello in mano va in crisi e non si capacita di come sia accaduto che anche in presenza di mio padre si rivolgano a me, e soprattutto prima di vedermi come sua figlia, mi vedono come una signora.

Don Fabio Rosini parlava delle prime evidenze. Ci misi un po’ per comprenderle lì per lì, ma alla fine trovai il suo discorso come una delle più utili rivelazioni che ho appreso nella vita.

Le prime evidenze sono quelle cose che parlano in maniera evidente di te.

A me servono per rimanere con i piedi per terra in momenti come questi in cui passato presente e futuro si mischiano in maniera disordinata perdendo il senso e la direzione che li caratterizza.

È così banale, ma se proprio in questo momento riuscissi ad inserirmi all’interno di questa prima evidenza, riuscirei a calibrare anche tutto questo sfarfallio emotivo.

È evidente che il mio aspetto, il mio ruolo e la mia voce porti gli altri a rivolgersi a me come una signora.

E mentre provo a prendere sulle ginocchia la bimba che afferrava forte a sé il suo Ciccio bello, annuisco al notaio e metto un’altra firma.

E sarebbe bello che qualcuno mi avesse dato le giuste capacità e le giuste parole per tessere con mio padre la relazione che idealizzavo e che non sono mai riuscita a portare avanti, ma purtroppo quel qualcuno non è mai arrivato.

Ed è in momenti in cui ti viene chiesto dalla vita e dai tuoi stessi desideri di fare un passo al di là delle tue sicurezze, perché è arrivato il momento di crearne altre più adatte alla situazione, che rimpiangi il non aver avuto la forza in passato di cedere alla battaglia che porta come vessillo l’orgoglio e l’egoismo.

È in momenti come questi che comprendi la preziosità dei gesti della quotidianità che nel piccolo sembrano così inutili. Arriva il giorno in cui hai percorso una lunghissima strada, e a tratti ti è sembrato di morire di sete, a tratti di fame. Alcune volte avresti voluto tanto sederti, nonostante ci fosse qualcuno che si è ostinato a prenderti a calci pur di farti rialzare. Arriva il giorno in cui la strada visibilmente muta, e nel cervello senti un minuscolo rumore. Come un filo che si spezza, o lo stesso rumore che fa il sole ogni volta che immerge tutto il suo volto dall’altra parte del mondo.

Senti uno di quei rumori che è talmente impercettibile che ti lascia in ascolto ancora per un po’ per capire se lo sentirai di nuovo di lì a breve.

Non torna. È servito solo a farti girare. È servito a farti contemplare l’orizzonte, non per tornare indietro, ma per lasciarti immergere in quella sana malinconia che ti fa restituire un senso alla sete, alla fame, alla fatica e alla quotidianità.

È servito a farti capire che c’è sempre qualcuno che ti è stato affianco per osservare insieme a te la strada, e schivare le buche e i tratti pericolosi.

C’è sempre stato quel qualcuno che a volte in silenzio, a volte urlandotelo a squarciagola ti ha sempre cercato di dire che un giorno avresti capito dove trovare l’amore di determinate parole e scelte che in quel momento sembravano così crudeli e soffocanti.

 Così ti perdi per pochi istanti, arrossisci insieme al sole stanco, fai un sospiro che ti riempie i polmoni. Scovi nel lontano il sapore di tutto ciò che adesso, avendolo percorso, senti dentro. Ti guardi attorno, e per poco ti sembra di essere rimasto da solo. Per poco barcolli in una strana sensazione di vuoto che un tempo avresti chiamato libertà. Per un attimo ti chiedi dove sono finite e dove stanno andando le persone che fino a poco fa erano accanto a te. Per un attimo temi di averle perse.

Finché cercandole con lo sguardo non le vedi poco più in là da te, a fissare lo stesso orizzonte, a fare lo stesso sospiro, a commuoversi per il tuo stesso sole stanco, e a guardare anche te nel loro orizzonte.

Sana malinconia. Un’altra firma e rimbomba ancora nel mio cuore.

Luz Stella Iaià. Mio padre mi sta accanto, mia madre è in ferie, non è presente ma la sento come se fosse qui e in ogni mio pensiero.

Un’altra firma ancora, e poi le chiavi.

Mi immagino entrare dentro casa, immagino un campanello, un citofono, un indirizzo che porta a me e non a loro.

Li sento accanto a me, mentre prendo le chiavi mi fermo di colpo e li lascio per un attimo da soli a contemplare il loro orizzonte.

La strada non finisce per nessuno anche quando le nostre fragilità ci fanno credere che siamo in un punto di non ritorno.

La strada non finisce nemmeno per loro, che oltre ad essere i miei genitori e le persone che più mi hanno amata in questa vita, sono anche uomo e donna che si sono ritrovati nel mondo e con amore e per amore hanno camminato percorrendo scelte di coraggio delle quali a me arriva solamente un lontano eco.

La strada non finisce per nessuno, e nessuno è destinato mai a rimanere da solo. Nemmeno quella bimba ancora aggrappata al suo pupazzo. Comprendo da qualche parte di me che non me ne devo liberare. Che devo tenerla sulle mie ginocchia a raccontarmi il mondo con i suoi occhi di bambina. Affinché io possa non dimenticarmene mai di cosa si prova a rimettere a posto un cassetto con le proprie mani, a cercare un abbraccio nello sconforto, a farsi lasciare dietro l’angolo di scuola.

All’ultima firma sento che devo fare un colpo d’ali. Ricado nell’istinto primordiale “papà lascia le chiavi a me, posso portarle io”. Gliel’ho detto. Papà, non c’è bisogno. Non è necessario, so che puoi farlo ma ora non serve più. Vorrei avere quel coraggio per saperti dire cosa serve. Il coraggio che non avevo trovato nemmeno in passato.

Serve che mi rimani accanto, serve che mi abbracci, serve che rassicuri il mio cuore facendomi vedere che sei felice, serve che rimani sempre in buona salute, serve che non soffri mai e che non sei mai stanco.

Serve che a un certo punto ti fermi e mi guardi volare, affinché anche io, una volta nella vita, possa essere quell’oggetto volante che ti permette di trovare e non perdere mai le forze di guardare ogni giorno il sole con un sorriso.

Il cammino, Parte II

La strada che segue è dritta, in pianura, ben pianeggiata dalle continue macchine e dal tempo. Ricordo che proprio in questo punto, superato il tratto di terra dove nascono le piantagioni dell’azienda familiare che vende prodotti a chilometro zero, sulla sinistra inizia il sentierino che porta sull’Appia.

Realizzo che da quel tratto sarebbe davvero finita la mia zona di comfort. Diciamo che era precisamente il tratto in cui Linus avrebbe dovuto lasciare la sua amata coperta.

Nel cuore tornano tutte le paure. Ho voglia di tornare indietro, ho paura di non farcela. D’un tratto ricordo il giorno in cui ho percorso quel tratto di strada insieme agli scout, pochi mesi prima. Rifletto su quanto camminare insieme agli altri salvi dalla paura. Quando si ha paura in un gruppo di gente le opzioni generalmente sono due.

O sfocia nel panico, nel terrore, o si trasforma in coraggio. Ci si guarda negli occhi, ci si stringe più vicini, magari scappa anche un sorriso per sdrammatizzare, e poi si procede con coraggio. Si parte più facilmente da quelli che sono i propri punti di forza, perché non si parte davvero da sé stessi, ma si parte dalla forza di chi ci cammina accanto, dal suo coraggio, dalla sua capacità di vincere quelle paure di quel momento.

Quando si è da soli bisogna soltanto guardarsi dentro, bisogna portare luce nella caverna dentro il proprio cuore. Bisogna sentirsi da soli capaci, e credere davvero di essere in grado di affrontare ogni difficoltà, ogni ostacolo.

Così, ferma col naso in su a fissare il cancello che si poneva all’inizio del sentiero, decisi di darmi fiducia e andai avanti.

La strada è più stretta, costeggiata da campi sulla sinistra e da case sparse sulla destra. A terra i segni delle macchine sono leggeri, cosa che lascia intuire quanto poco sia trafficata quella via.

D’un tratto torna nel mio cuore la paura di incrociare qualche cane, e istintivamente inizio a misurare l’altezza dei muretti posti ai lati della strada. Potrei saltarci sopra ed aspettare che il cane si stufi o che qualcuno venga a salvarmi. Magari il mio famoso principe azzurro perso sull’appia antica, potrebbe corrermi incontro, sellata la sua luccicante moto fedele, potrebbe sconfiggere il cane rabbioso, con lo stesso coraggio dei principi delle favole che affrontano il drago a cavallo.

D’un tratto mi sento folle nel constatare la mia capacità di produrre un pensiero del genere, e da sola per strada sorrido.

Dopo poche curve si sdraia avanti ai miei occhi un altro tratto di strada dritta. Bene! Mi dico. So perfettamente cosa mi aspetta per i prossimi dieci minuti.

Così lascio andare i miei pensieri liberamente. Mi rendo conto della semplicità di questo tratto di strada, di questa camminata intrapresa oggi. È piacevole, è bella. La sensazione che provo è di serenità. Non quella esaltante, nemmeno quella finta, posta per sovrastare lo stress o pensieri negativi.

Quella serenità che ti fa dire che comunque stiano andando le cose, è proprio così che devono andare.

Ci si mette nella vita molte volte con la consapevolezza di star compiendo un cammino, ma con facilità si dimentica che i cammini sono già tracciati. Così mi svolazza attorno l’idea che la libertà nel pianificare la nostra vita non sta nel segnare sentieri, ma nello scegliere la direzione, scegliere con chi parlare, scegliere cosa ascoltare.

Il quadro è dipinto, i personaggi sono già in gioco. Non è fatalità, ma un destino costruito di scelte. Per questo lo scoutismo, che da tanti anni ormai fa parte della mia vita, punta a mandare nel mondo uomini adulti che sappiano scegliere.

Così, come prima potevo scegliere se oltrepassare il cancello o tornare indietro, ad ogni svolta della propria vita si può scegliere per cosa spendersi, quali cammini intraprendere, quali paure affrontare e in che modo.

Per questo è importante anche avere una meta, degli obiettivi. È necessario affinché nel momento in cui dovessi trovarmi avanti ad una scelta difficile tra due strade, io non possa buttarmi su una terza strada pur di non scegliere. Non si cammina per camminare, si cammina per seguire la direzione.

Adesso la mia strada proseguiva dritta, e sapevo benissimo per quanto tempo ancora avrei dovuto camminare e quanto avrei dovuto spendermi per quel tratto. Sapevo che prima o poi avrei trovato qualche curva, qualche discesa, qualche salita. Ma l’avrei affrontata al momento giusto, passo dopo passo.

Adesso la mia battaglia era piuttosto semplice.

Stella, segui il passo delicato del piede che affonda sulla strada soffice, e mentre il sole soffia i propri raggi leggeri sui tuoi capelli crespi, lascia che la testa faccia il pieno di pensieri trotterellanti e rasserenati. Per questo, la strada dritta era il momento adatto a prendere in braccio alcuni momenti della mia vita ed accoglierli come una madre che riconosce qualsiasi suo figlio, che sia più o meno bravo, più o meno felice, più o meno amabile.

Così pensai al mio percorso universitario, ai miei errori, ai momenti più spensierati e ai momenti di disperazione.

La strada dritta era l’università, avrei dovuto sapere al tempo, che mi aspettava una strada serena, nella quale di base avrei dovuto semplicemente fare ciò che richiede l’università. Seguire le lezioni, studiare con entusiasmo, rimanere al tempo degli esami, appassionarmi delle mie materie.

Il paesaggio, le case, i rumori lontani, erano tutte le persone, le cose, gli avvenimenti che avrebbero girato attorno a tutto questo. Gli amici trovati e persi nel tempo, i professori più o meno stimabili, gli infermieri che mi hanno donato un po’ del loro tempo e della loro pazienza, i pazienti che mi hanno richiesto pazienza ed amore. E la mia famiglia tra le scarpe. La mia famiglia, la suola sotto i piedi che mi ha permesso giorno per giorno di camminare.

Questa semplice metafora mi ha portato ad un altrettanto semplice domanda. Mi sono chiesta in che punto di strada mi sarei posta pensando al momento attuale della mia vita.

Domanda quasi retorica, visto che l’avvicinarsi della fine dell’università, il compiersi della fine della mia storia d’amore, il ritorno nella mia vita di persone che mi erano state vicine anni prima, non fa altro che pormi in una curva ad u.

E in questa curva l’impossibilità di guardare oltre si rivela un’opportunità bellissima per poter sognare con una nota nuova di speranza, e far sobbalzare il mio cuore al pensiero di dovermi arrotolare le maniche per poter trovare da subito quali strumenti effettivamente mi rimangono in mano.

Sono gli strumenti grazie ai quali posso costruire, passare dal sogno al progetto, a prescindere da come sarà la strada oltre questa curva.

Fantasticando su queste idee pseudo rivoluzionarie, e dimenticandomi quasi completamente del povero principe azzurro perso nella via appia, proseguii per la strada oltrepassando il rettilineo che mi si era posto avanti, superando due o tre curve, una staccionata, qualche campo privato, tre o quattro cani rabbiosi dentro un recinto e una zona circoscritta da filo spinato appartenente al corpo militare.

Fu così che divagando da un pensiero all’altro mi ritrovai alla fine di quel sentiero così silenzioso e anonimo per sbucare effettivamente sulla famosa via Appia.

Ehi, dissi a me stessa, sono ancora viva, e per di più, non sono nemmeno stanca, e il sole non è ancora tramontato, e non ho incontrato nessun cane che mi ha sbranato!

Ero gioiosa. Ero soddisfatta. Mi sono detta, tutto qui?

E pensare che avanti a quel cancello iniziale ero così titubante e impaurita. E pensare che credevo che non ce l’avrei fatta, e pensare, soprattutto, che credevo che avrei incontrato il mio principe azzurro.

Non ho trovato nulla di tutto ciò che temevo e speravo di trovare. Avevo trovato invece una serenità, quantomeno momentanea, che mi conferiva la capacità di dire a me stessa che davvero, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, accaduta fino a quel momento o che stava accadendo proprio ora, si stava realizzando nel migliore dei modi.

Da quel punto della strada fino al rientro in zona conosciuta non mi ha seguito nessun tipo di timore, nessun tipo di esitazione.

Mi trovavo su una strada frequentata da turisti, curiosi, sportivi che per un motivo o per l’altro si trovavano ad incrociare la mia in quel giorno. Il sole era ancora vispo nel cielo, ma meno tenace delle ore centrali. Per questo qualche spiffero di sera iniziava ad infiltrarsi tra un arancione e un giallo ancora presente nell’aria.

Proseguendo dal mio tratto di appia antica ho superato ciò che rimane delle rovine di cecilia Metella, e ricordai il mio ultimo momento in clan.

Alla fine del percorso nella propria comunità scout, viene richiesto a chi decide di prendere la partenza, di parlare delle proprie scelte. Così il gruppo dedica a questa persona un momento esclusivamente suo. Ricordo perfettamente quanto non fui assolutamente in grado di cogliere quel momento. Non lo resi mio, non lo sfruttai. Sentivo dentro di me un’ansia da prestazione talmente grande che feci ciò che spesso mi viene fin troppo semplice da fare. Mi auto sabotai.

Avrei voluto dire tante cose, parlare tanto di me, di ciò che avevo appreso, di ciò che mi aspettavo dalla mia scelta. Invece feci il minimo indispensabile. Quel giorno passai la mattina sdraiata a circo massimo, a riflettere, ad aspettare il momento adatto per alzami, andare verso casa, mettermi in uniforme e affrontare questo terribile evento.

È così che la paura, la necessità che sentiamo dentro di dover dimostrare a qualcuno di essere all’altezza di qualcosa, uccide la possibilità di realizzare un momento speciale e autentico.

Riguardando il prato in cui svolsi le attività che avevo pensato, e che ovviamente adesso non ricordo per nulla, ho proseguito percorrendo la stessa strada che avevo percorso quel giorno per tornare a casa una volta finita la cerimonia.

Mi ricordo che la passai al telefono con colui che allora giurava di essere il mio principe azzurro, e durante il mio cammino si proponeva di venirmi a prendere per darmi un passaggio.

Mi ricordo perfettamente che gli risposi che avevo bisogno di farmi una doccia che allora definii seria, e scoppiammo entrambi a ridere.

Eccomi di nuovo su quella stessa strada, quattro anni dopo, a concludere seriamente quel cammino di rientro a casa dopo la mia partenza. Non ci sta alcun telefono nelle mie tasche, alcun principe azzurro. Cammino semplicemente con la mia voglia di continuare a guardare le cose belle del mondo, di ritrovare la bellezza di reinventarsi da capo, il coraggio di chiudere ogni progetto da un giorno all’altro, percepire il dolore e la delusione, ma ripartire con slancio senza tradire la bellezza che chi ama davvero sa cogliere in te.

L’ultimo tratto prima di arrivare alla mia meta prefissata, ovvero la parrocchia, l’ho passato sulla trafficata e rumorosa via Ardeatina.

In quel tratto ogni pensiero e ogni riflessione viene sovrastata dal brontolio delle macchine, dalla necessità di sopravvivere all’assenza di marciapiedi, dalla puzza di smog e dall’anca che ha iniziato a chiedermi il perché di tanto camminare così da un giorno all’altro.

Raggiunta la chiesa ho rallentato i miei passi. Mi sono trovata d’un tratto grondante di sudore, capace di percepire nuovamente il caldo che avvolge la città di Roma intrappolato tra gli alti palazzi.

Avevo bisogno di concludere il mio cammino offrendo tutto a ciò che sentivo potesse stare nel mio concetto di inizio e fine, ovvero a Dio.

Per questo entrando in chiesa mi sono ricoperta di aspettative. Ho immaginato un ingresso tra cori celesti che inneggiavano la bellezza del Signore, mentre Lui con sguardo fiero ed amorevole mi avrebbe accolto fra le sue braccia facendomi capire quanto aveva apprezzato il mio mettermi in strada e tutte le cose che avevo percepito durante il cammino.

In tutto questo spettacolo quasi da paradiso Dantesco avrei percepito il battito del mio cuore aumentare la sua potenza, non la sua velocità, come volesse sprofondare dentro al mio petto al cospetto del Signore, nella consapevolezza di una redenzione piuttosto breve ma intensa.

Così, ricoperta di un odore alquanto discutibile per la mia camminata, ricoperta da stille di sudore e affannata, ho compiuto il mio ingresso in chiesa con fare spavaldo.

In tutto ciò mi ha accolto una chiesa scarna di fedeli, più o meno consistenti in tre o quattro vecchine lasciate sole nei giorni più caldi di agosto, che nel silenzio del pomeriggio avevano deciso di venire ad ammirare nuovamente l’immagine del Cristo in croce. Nessun prete, nessun chierichetto, che oltretutto sembrano anche essere in via d’estinzione.

Per non parlare del fatto che in quel momento mi sono ricordata del principe azzurro, e iniziai a temere di averlo davvero lasciato andare e dimenticato nella Via Appia. Che spreco!

Pochi secondi dopo scorgo due volti conosciuti, gioisco almeno per questo, e li saluto.

Passo con loro una buona mezz’oretta a parlare di come il mio principe azzurro si fosse rivelato semplicemente un cittadino qualsiasi.

Dentro di me avrei voluto abbracciarli nella mia disperazione e piangergli sulla spalla cercando la loro approvazione, ma in realtà non sarei nemmeno riuscita a farlo davvero.

Sì, mi sentivo triste a parlarne, arrabbiata, ma non disperata.

Inoltre, l’aver percorso la via Appia in quella giornata, ed essermi finalmente alzata dal letto, mi faceva sentire una persona particolarmente ammirevole.

Nella conversazione li aiuto a prendere dei faretti dalla casa dei preti in chiesa. Incontriamo uno dei pochi rimasti, lo salutiamo, ci scambiamo due chiacchiere tranquille e se ne va dopo averci raccontato a grandi linee le sue vacanze.

Alla fine di una discussione che rasentava più che altro la forma di un monologo da parte mia, decidono di invitarmi a pranzo per il giorno dopo, accetto. Nel frattempo, dopo averli salutati, mentre decido di andare a messa, mi chiedo secondo quale senso di sacrificio o sentimento abbiano deciso di invitarmi. Decido che l’hanno fatto per compassione, un po’ mi sento in colpa a pensarlo. Gli voglio bene. Entro a messa.

 

Due minuti all’arrivo

Contratto il tempo, e sospeso. Due minuti all’arrivo della metro, e già preso dai jeans il mio libro osservo sottecchi il dondolio della gente. Formiche brulicanti, avanti e indietro, impazienti. Lo sanno, due minuti. E in questi due minuti che sono? chi sono? che faccio? Potrebbe disgraziatamente capitare di alzare gli occhi per cercare il cielo, ed inciampare in altri occhi, e riconoscere la breve distanza tra me e la persona che mi è accanto in banchina. Rovinosa vicinanza, come un sasso non visto per strada. Ed inciampa lo sguardo. Si ferma. Siamo così accanto e non parliamo. Sono così vicina e non l’avevo vista fino ad ora, né sentita, né guardata. Ha un rossetto tenue, come una fioca luce che balugina dal palmo di una lontana montagna. Rosaceo, allarma lievemente il colore delle sue labbra. E’ steso di fretta, non preciso, ma grazioso. Pelle chiara, quasi spettrale, e degli occhi nocciola. Un nocciola pieno, come un pastello saturo di colore. Un nocciola distratto, perso in una do-list che scorre, e percorre, e vaga e torna indietro tra le camere del cervello. Spesa, macchina, benzina, bollette, cena, Marco a scuola, venti minuti, due alla metro, fermata colosseo, il pane, la spesa, chiamare l’estetista, martedì dottore, venerdì dentista, domani sveglia presto, oggi, letto presto, è tardi, che ore sono? due minuti, ancora non passano, farò tardi, spesa, macchina, benzina, bollette, cena, Marco a scuola, due minuti, duemila anni, non passa, fa caldo, ho sete, chissà se poi piove, quanto manca, è tardi, ho sonno, sono stanca. Osservo le autostrade della mente intasarsi precipitevolmente, e creparsi, fratturarsi, emergere come lava da un vulcano e mostrarsi sulla fronte, nel solco di mille rughe già veterane in quel viso. Deve avere una trentina d’anni, è sposata, si cura le unghie, è ben vestita. Poi si alza e si allontana. Peccato, un’altra vita persa, un intreccio non legato. Un minuto alla metro. Il tempo non passa, s’è steso sui passi tiepidi che percorrono senza accorgersene due, tre o quattro metri di strada, avanti e indietro, indietro, avanti, un minuto. L’orologio suona, è un Casio. Suona a mezzogiorno, piccoli suoni acuti, come fosse una musica monotona che per uscire da quel polso s’è messa dei tacchi fini fini, e cammina sulle scale dell’aria quasi tintinnando. Bip, bip, mezzogiorno, un minuto, trentadue volte, avanti e indietro. Trentacinque persone concentrate in quattro metri e mezzo di banchina, autostrade di pensieri che si scontrano e rompono le fronti, rughe, sospiri, i tacchi del suono dell’orologio, e io col mio libro in mano. Non capisco ancora che cosa sono stata in questi due minuti della mia vita. A due a due in fondo fanno anche un’ora, e ora per ora passano i giorni, e gli anni. E il tempo sorride beffardo, disteso anche lui in quei quattro metri di banchina con una spiga di grano in bocca, tranquillo, mentre io in quel momento non sono, perché non parlo, non penso, non conosco, non apprendo, non faccio nulla. Aspetto. Treno in arrivo. E le autostrade si fermano, le giacche si scompongono strattonate dall’aria soffiata dall’impeto dei vagoni in frenata, gli occhi si accendono, le bocche dipinte da rossetti variegati si contraggono, si distendono, sorridono, si piegano, baciano, salutano. Il chiacchiericcio torna un po’ più vivido, più zampillante, e chiacchierano anche le ruote delle valigie che piano ma con note d’ansia, s’avvicinano alla fatidica linea gialla da non oltrepassare, ed io osservo, cerco vagoni con posti vuoti. Treno in arrivo, la massa entra, non parla, non si guarda, si siede, rimane in piedi, corre verso spazi vuoti, e oscilla in questi, fermata per fermata, minuto per minuto, ora per ora. E ora che entro in altri due minuti, nuovi, freschi, aitanti e promettenti, ora che torno a guardare il vuoto e a non pensare…ora, chi sono?

 

Inizio (ricomincio da qui)

L’inizio è sempre difficile. Programmare, progettare, scrivere il tuo nome ovunque. Sentire una pulsione dentro e dargli il nome esatto. Inevitabile la domanda, “cosa vuoi adesso?” “cosa vuoi davvero?”

Sarà come tutte le altre volte o cambieranno le strade? Ogni volta si spera di fare qualcosa di grandioso. DI poter cambiare il mondo, potersi rinnovare.

E’ la logica dell’aggiornamento del software. Ma noi non siamo programmati, nessun software, nessun aggiornamento. Non basta che sia lunedì per potersi sentire migliori, che sia gennaio per poter cambiare, che arrivi domani per avere progetti di vita.

Bisogna lavorare sodo ogni istante per ogni cosa. Mantenersi integri, rimanere vivi, lavorare d’ali, mantenere il volo. Lavorare sodo perché la vita resti in vita, per comprargli il cappotto migliore, od offrirgli il drink migliore sotto l’ombrellone. Saperla ascoltare, carezzarla nei momenti di tristezza. E’ una madre, una figlia, una moglie. E’ il datore di lavoro, il compagno di stanza. E’ il macellaio, il nostro Dio. Tiene le fila di quelli che ci ruotano attorno, e c’è bisogno che ruotino, che si muovano, che continuino vorticosamente a girare, a tessere, ad essere. Sono i nostri vestiti. Sono la nostra immagine allo specchio, sono la nostra fine, sono adesso, il nostro inizio.